Per scrivere bene, scelgo le parole morbide
Le parole difficili non mi piacciono. Quelle che suonano rigide, un po’ appuntite, hai presente? Pensa che una volta ci andavo d’accordo. Anzi, ti dirò che alcune mi piacevano pure. E poi? Eh, adesso ti racconto.
Il prima | Quando ero in una bolla
Dopo che mi sono laureata in Psicologia (e ho fatto il mio anno di tirocinio, e dato l’Esame di Stato) ho deciso che sarei rimasta a lavorare in università. No, non avrei fatto la psicologa. Quegli anni di studio mi avevano fatto capire che non sarebbe stata la mia vita e nel frattempo mi ero innamorata della Sociologia – quella della narrazione, non quella dei numeri. Avevo scritto una tesi sulla scrittura contemporanea ed ero felicissima perché il mio relatore mi aveva scelta come collaboratrice. Sarei rimasta lì, a studiare, scrivere e fare ricerche bellissime.
Ecco, in quei quattro anni ho visto un sacco di parole. Scritte da altri, scritte da me, editate, corrette, impaginate. Erano soprattutto parole difficili. Un po’ pretenziose, proprio. E io, che passavo le mie giornate in quella bolla di narrazioni colte, le trovavo normali. A volte, addirittura, mi sembravano belle. Non sentivo le loro spine, quelle che tengono lontane le persone.
Il dopo | Quando la bolla è scoppiata
Poi a un certo punto la bolla è esplosa.
Gli anni passavano e lavorare in università era sempre più difficile. Cioè, no: lavorare era facile, trovare i fondi che finanziassero i progetti era difficile.
Fatto sta che ci ho pensato un sacco e alla fine ho salutato tutti e me ne sono andata. A fare il correttore di bozze, per un anno. E poi sono arrivata nel magico mondo della comunicazione.
Ecco, a un certo punto ho iniziato ad accorgermi che le parole che giravano fuori dalla bolla in cui ero stata quattro anni erano diverse. Più concrete – mi sembrava quasi di sentirne lo spessore. Meno spigolose.
Guarda, all’inizio le leggevo e avevo la sensazione che fossero povere. Che mancasse qualcosa. E invece piano piano ho capito che non era vero, che erano più morbide e vere.
Ci è voluto del tempo per abituarmi, che ritrovarsi scaraventati fuori da una bolla non è mica facile. Ma poi ho capito che quelle parole là, quelle difficili, mi erano diventate antipatiche e che avrei fatto di tutto per evitarle.
Adesso | Quando traccio i confini delle parole
Oggi che con le parole ci lavoro tutti i giorni provo a stare attenta.
Perché ogni tanto ci ricasco e vado a riprendere quelle spinose, altezzose e con lo sguardo da nobile decaduto. Ma poi quando provo a rileggere, magari ad alta voce, sento che pungono e le cambio.
Perché non ho capito tantissime cose ancora, ma una sì: le parole morbide, quelle di tutti i giorni, sono belle.
Certo, non posso usarle sempre sempre, a volte ci sono dei vincoli, dei toni e degli stili a cui devo adattarmi, ma ogni volta che posso le scelgo. Ascolto il suono che fanno e sorrido.
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(foto Danilo Batista on Unsplash)
margherita
22 Novembre 2017 at 19:16Mi hai fatto riflettere: spesso se devo scegliere tra due versioni di una parola, preferisco la variante dotta a quella popolare. E il problema è che mi piace ahahah. Ma mi sto rendendo conto sempre più di quanto siano più piacevoli e accoglienti le parole morbide.
Non sarà sempre possibile, ma mi sforzerò di ammorbidire un po’ ciò che scrivo (non che scriva saggi critici su dottrine accademiche eh, ma il latinismo a volte mi scappa pure se devo recensire un libro ;)).
Bellissimo post come sempre, sembra quasi una lezione americana di Calvino.
Prima o poi riuscirò a partecipare ad un tuo corso in aula 🙂
Valeria Zangrandi
22 Novembre 2017 at 21:17Grazie per esserti fermata qui, a raccontare di parole dotte e parole morbide. (E grazie per il paragone, immeritato ma è figo comunque leggerlo).
Dai, speriamo di vederci presto dal vivo, allora! 🙂